Oggi l’ex numero dieci e tecnico della Lazio compie sessanta anni. La storia di un uomo che ha vinto e diviso in tutte le piazze in cui ha lavorato: successi e polemiche, trionfi e delusioni. Sempre in prima linea..
“La magia del numero 10 è quella che nasce dai piedi del trequartista, il giocatore di fantasia, quello capace di spiazzare tutti con un gesto atletico di cui forse neppure lui ha piena consapevolezza”. Con queste parole Roberto Mancini ha chiuso la tesi di fine studio del Corso Master 2001 per l’abilitazione ad allenatore professionista. Un elogio del numero dieci. Il calciatore capace di regalare fantasia ed imprevedibilità ad ogni squadra. In pratica, un piccolo riassunto della sua vita calcistica.
Roberto Mancini, che oggi compie sessanta anni, è stato infatti un fantasista dalla classe cristallina. Un leader assoluto dello spogliatoio. Attaccante straordinario capace di guizzi incredibili e giocate d’alta scuola. Il re assoluto dei colpi di tacco. Realizzatore di uno dei gol (sempre di tacco) più belli nella storia della Lazio. Allenatore capace di regalare un gioco divertente e di raggiungere in due stagioni un quarto posto (con tanto di qualificazione in Champions League) e una vittoria in Coppa Italia. Per la Lazio Roberto Mancini ha rappresentato tutto questo. La sua storia biancoceleste è stata bella, duratura, emozionante e ricca di vittorie. Un amore durato cinque anni e mezzo e che ha portato in bacheca uno scudetto, due Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, una supercoppa europea, due Supercoppe Italiane (come giocatore) e una Coppa Italia da tecnico.
Mai nessuno come Roberto Mancini è stato in grado di cambiare la storia biancoceleste, trasformando una società in bilico tra sogni e illusioni in un’armata vincente. Quando arrivò catechizzò l’ambiente laziale. “Ma perchè continuate a guardare il bicchiere mezzo vuoto? Non vi rendete conto di che squadra siamo? Sosteneteci e arriveremo lontano”, disse in una delle sue prime interviste romane. Mancini è così…prendere o lasciare! O si odia o si ama. O si è con lui o contro di lui. Non ama compromessi o mezzi termini. Quando arrivò nella capitale portò la sua esperienza e la sua mentalità vincente, trasformando un ambiente che mai, fino a quel momento, aveva creduto nei propri mezzi.
Alcuni ne fecero le spese (Signori e altri vecchi leader dello spogliatoio), ma alla fine riuscì a portare la Lazio dove non era mai arrivata in quasi cent’anni di storia. Lo stesso Cragnotti riconobbe a Mancini i meriti maggiori del cambio radicale del club biancoceleste. Una storia che si ripete. A Roma come a Genova, a Milano come a Manchester, fino alla Nazionale italiana. In tutte le piazze dove Mancini si è trovato a lavorare è stato protagonista di risultati straordinari e di cambiamenti epocali nella storia dei club. Che mai nessuno come lui è in grado di trasformare e rendere grandi.
La sua storia calcistica inizia ben presto. Lascia Jesi giovanissimo e a soli sedici anni e mezzo arriva l’esordio in serie A, con il Bologna di Burgnich. Nonostante la giovane età, il tecnico decide di puntare immediatamente su di lui, lanciandolo nel blocco dei titolari. Alla fine della sua prima stagione da professionista collezionerà trenta presenze e 9 reti. Alcune di ottima fattura. L’estate del 1982 lascia Bologna e inizia la sua avventura più duratura e passionale. A Chiamarlo è la Sampdoria di Mantovani. A Genova resta ben quindici anni, affermandosi come uomo e calciatore. Forma con Gianluca Vialli una coppia solida in campo e fuori e porta la Sampdoria dove mai era arrivata nella sua storia. Mancini diventa un uomo Samp, grazie soprattutto al rapporto che crea con il presidente Mantovani, che diventa per lui un secondo padre.
Con la Sampdoria è protagonista di un ascesa straordinaria. La squadra doriana, guidata dal vulcanico Boskov diventa protagonista in Italia e in Europa. Il capolavoro arriva nel 1991 con la vittoria dello scudetto. Uno dei match decisivi per il trionfo finale è la vittoria sul campo dei campioni d’Italia del Napoli. Davanti a Maradona Mancini si inventa un goal eccezionale, uno dei più belli della sua carriera. A fine stagione arriverà lo scudetto tanto atteso da tutto l’ambiente doriano. L’anno successivo la Samp arriverà a giocarsi la finale di Coppa Campioni, soccombendo al Barcellona solo allo scadere dei tempi supplementari. Una sconfitta cocente, che porta Mantovani a rivoluzionare la squadra. Il patron lascia partire gran parte dei suoi campioni. Tutti tranne uno: Mancini resta a Genova altri sei anni. L’estate del 1997 lascia la Sampdoria dopo 424 partite e 132 gol segnati. Per lui inizia una nuova avventura. A chiamarlo è la Lazio di Cragnotti.
Nella Lazio arriva insieme al suo maestro Eriksson. Lo svedese guida la squadra dalla panchina, Mancio dal campo. I due formano una coppia solida, affiatata. Dopo aver fatto le fortune della Sampdoria, sono pronti a far diventare grande la Lazio. Mancini esordisce in maglia biancoceleste il 31 agosto 1997 contro il Napoli. Una gara dura, complicata, che la Lazio fa fatica a sbloccare: a 20 minuti dalla fine però arriva il guizzo del campione. Il primo di una lunga serie. Il numero dieci laziale impiega pochissimo tempo a diventare leader della squadra. Insieme ad Eriksson lavora in campo e sulla testa dei compagni, inculcando ad un gruppo poco avvezzo ai successi, una nuova mentalità vincente. Segna gol bellissimi e importanti e diventa immediatamente trascinatore nei derby, realizzando una rete nella stracittadina di campionato (con la Lazio in dieci e passando tra due difensori della Roma) e una nei quarti di finale di Coppa Italia.
A fine anno la Lazio tornerà a riaprire la bacheca dopo 24 anni di attesa, portando a casa la Coppa Italia al termine della doppia, intensa ed emozionante finale contro il Milan. Mancio è il protagonista assoluto del match di ritorno con due assist e una serie di grande giocate. Così come accadde a Genova, anche a Roma Mancini trasforma una squadra inesperta e fragile in una macchina vincente. La stagione successiva, con l’esplosione della coppia gol Vieri-Salas, si ritaglia un ruolo in mezzo al campo, diventando regista della squadra. I suoi numeri furono straordinari. Mancini è protagonista nella vittoria in Coppa delle Coppe contro il Mallorca e diventa sempre più leader della squadra.
Regala a Salas l’assist per la vittoria contro il Manchester United nella supercoppa Europea e chiude la sua carriera da calciatore il giorno in cui la Lazio festeggia il secondo scudetto. Il 14 maggio del 2000 i tifosi vivono emozioni forti. La Lazio è campione d’Italia dopo ben 26 anni e Roberto Mancini lascia il calcio con uno scudetto straordinario. Lasciato il calcio Mancini Inizia la sua carriera da allenatore alle spalle di Sven Goran Eriksson, il tecnico con la quale ha vissuto nove stagioni esaltanti. Quando a gennaio del 2001 l’allenatore svedese lascia la Lazio per diventare commissario tecnico della nazionale inglese, Mancini si aspetta una promozione in prima squadra. Ma Cragnotti, già scottato dal prematuro addio di Eriksson, preferisce andare sul sicuro, preferendogli l’esperto Zoff. Mancio è deluso e dopo quattro stagioni lascia la Lazio
L’esordio sulla panchina Biancoceleste è solo rimandato all’estate del 2002. Mancini ha già alle spalle una Coppa Italia vinta da tecnico alla guida della Fiorentina, ma l’esperienza sulla panchina della Lazio è la sua prima, vera, grande opportunità per crescere come tecnico. Mancini è subito chiamato a gestire una situazione di grande emergenza. Oltre a dover ricostruire un ambiente devastato dalla gestione Zaccheroni, si ritrova a gestire un gruppo che l’ultimo giorno di mercato perde due pezzi da novanta del calibro di Alessandro Nesta ed Hernan Crespo. Il Mancio non fa una piega. Costruisce una squadra di livello e un gruppo solido. Rigenera calciatori che sembravano finiti (fra tutti Mihajlovic, Fiore, Liverani, Lopez), riesce a superare i continui problemi societari che minano le certezze dei tifosi e costringono la squadra a lavorare con la prospettiva di un futuro incerto.
Nasce la “Banda Mancini” che in due anni colleziona una qualificazione in Champions League e una Coppa Italia. Il 13 maggio 2004, sei anni dopo la magica notte dell’Olimpico in cui la sua Lazio sconfisse il Milan, Mancini torna ad alzare una Coppa Italia. Mancini come al solito spacca l’ambiente. Da una parte i tifosi che impazziscono per lui e che esaltano il bel gioco della squadra, la mentalità che ha saputo inculcare ai suoi giocatori e la grande capacità di gestire una serie di situazioni difficili. Dall’altra chi gli rimprovera di pensare sempre e solo ai suoi interessi.
I due anni sulla panchina laziale infatti, sono serviti a Mancini come trampolino di lancio per l’ascesa della sua carriera. Soprattutto durante la sua ultima stagione da tecnico biancoceleste infatti, il Mancio non ha mai nascosto la volontà di sposare l’ambizioso progetto interista che Moratti gli aveva proposto. Mentre i suoi calciatori firmavano un piano di dilazionamento degli stipendi arretrati per regalare ossigeno alle casse societarie, Mancini si faceva rinnovare con un sostanzioso adeguamento economico il suo contratto. E mentre in società qualcuno giustificava la cifra proposta al tecnico come un aumento dettato dal doppio ruolo che Mancini ricopriva: allenatore e manager sul modello inglese, quest’ultimo prendeva le distanze da un ruolo alla Fergusson allontanando di fatto un lungo futuro da manager laziale.
Nella sua testa infatti c’erano già i trionfi sulle panchine di Inter e Manchester City. I ricchi contratti firmati da Moratti, dagli emiri che controllano la società inglese e dal Galatasaray. Ovunque è andato ha lasciato il segno. In tutte le società per le quali ha lavorato ha fatto impazzire i tifosi. I laziali lo hanno amato, seguito, idolatrato. Quando è tornato da tecnico interista lo hanno insultato sventolando finte banconote da 500 euro. Ma la sera del 12 maggio 2014, durante la festa “di padre in Figlio” sono tornati ad applaudirlo e a invocarlo sotto la curva nord. Mancini infatti non potrà mai essere dimenticato. Grazie a lui la Lazio ha spiccato il volo, iniziando a collezionare successi in Italia e all’estero. Con lui si sono scritte alcune tra le pagine più belle ed esaltanti della storia biancoceleste. Tanti auguri Mancio, eterno numero dieci del calcio italiano.